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Salvini “buonista” sui profughi di guerra. Eppure i conflitti non sempre valgono l'asilo

Lecco (Lècch) - L'interesse generale appare monopolizzato dalla bega sui sedicenti profughi, consentendo a chi comanda di distogliere l'attenzione e la reazione della società civile dalla sistematica opera di liquidazione economica e soprattutto morale del Belpaese. Intorno alla cosiddetta invasione via Lampedusa si assiste a un dibattitto dove motivazioni di buon senso si confondono ad argomentazioni errate. E anche Matteo Salvini prende per buono un luogo comune diffuso dai media.

CURIOSA. Il segretario della Lega Nord, con una dichiarazione in odore di buonismo, ha affermato che farebbe entrare in Italia quanti scappano da un paese in guerra. Poi ha subito aggiunto che un gran numero di aspiranti rifugiati, in realtà, non provengono da nazioni in conflitto e dunque, a suo dire, non possono godere del diritto d'asilo.

AUTOMATISMO. Le cose non stanno in questi termini. Ma da quando il requisito di rifugiato poggia semplicemente su un fatto bellico che coinvolge il Paese di provenienza dell'asilante? Salvini sarà stato sviato dal fatto che tutti i media spiegano come gli immigrati economici non siano da considerarsi profughi, mentre la guerra, in questa epoca vile, è sempre un valido motivo per tagliare la corda. Ma se applicassimo l'automatismo della pavidità, per assurdo dovremmo portarci in casa milioni di statunitensi, visto che gli Usa sono sovente impegnati in guerre e il terrorismo li ha colpiti.

LO STATUS. Lo status di rifugiato, in realtà, viene semplicemente riconosciuto a chi subisce gravi rischi personali, persecuzioni e violazioni di cosiddetti diritti umani, a prescindere dal fatto che questo avvenga in periodo di pace o di guerra. Negli anni scorsi l'asilo in Italia è stato accordato (con decisione discutibile), ad esempio, anche ad omosessuali che non potevano esercitare la loro pratica nel proprio Paese. D'altro canto, vediamo approdare profughi pataccari partiti da nazioni che godono di un certo livello di benessere come la Nigeria o lo Sri Lanka, considerate in guerra. Peccato che soltanto una piccola zona di quegli Stati sia minacciata da incursioni islamiche e gli eventuali profughi potrebbero agevolmente spostarsi nella parte restante del loro territorio nazionale.

RENITENTI. Risulta, invece, che molti degli aspiranti rifugiati più che scappare a guerre sfuggano al servizio militare, che siano insomma semplici renitenti alla leva o disertori. Circostanza che spiega perchè alcuni di costoro si affidino ai barconi per arrivare in Italia, e non viaggino su aerei o navi come gran parte dei loro connazionali che vengono nel Belpaese per motivi di affari, studio, vacanza, cure sanitarie o in visita a parenti: chi sfugge agli obblighi militari, infatti, non dispone del passaporto.

PRIVILEGIATO. Insomma, non sempre chi proviene da un Paese in guerra è un profugo, e non sempre non lo è chi proviene da un Paese dove non si spara un colpo. Aspetti che dovrebbero indurre a ripensare dalle fondamenta l'approccio alla questione. Magari cominciando col capire perchè il potere vuole convincerci che il destino infausto di stranieri partiti coi barconi sia un argomento privilegiato rispetto alla sorte delle migliaia di cittadini che, ogni giorno in Italia, muoiono di incidenti sul lavoro (o per recarsi al lavoro), di malattia (e spesso di malasanità), per mano di delinquenti (sovente d'importazione), o per tartassamento ad opera di un fisco esoso che riduce sul lastrico le famiglie e conduce al suicidio i piccoli imprenditori.

Giulio Ferrari

12 settembre 2015