Riva Arnaboldi: «Lecco riscopra Minonzio nella luce della Verità»
Lecco (Lècch) - La verità obbligata sui fatti della Seconda guerra mondiale, e sugli episodi della Resistenza, appiattisce gli uomini nelle categorie dei buoni (vincitori) e dei cattivi (sconfitti) lasciando alle nostre spalle abissi di umanità inesplorata o sottaciuta.
LACUNE COLLETTIVE. Giuseppe Riva Arnaboldi, scrittore lecchese affascinato dalla forza dei sentimenti e della verità, subisce il richiamo di quelle profondità precluse, attratto da quanto albergava nei cuori di chi ha attraversato con animo puro e nobile la bufera della guerra civile e, a causa della propria scelta di onore, oggi soffre la denigrazione o l'oblìo imbarazzato. A colmare lacune della memoria collettiva, nelle pagine del bel libro di Riva Arnaboldi, "Parole di neve", entra la vicenda umana di un antifascista di altissimi princìpi: Franco Minonzio.
Professor Riva Arnaboldi, lei è intervenuto quale relatore in un recente incontro alla Cisl di Lecco su Franco Minonzio, sindacalista fucilato dai tedeschi nel campo di concentramento di Fossoli, come rappresaglia in risposta alla strage compiuta dai partigiani in un bar di Genova. Qual è la peculiarità che ha riscontrato in questa singolare figura di antifascista?
«Franco Minonzio è una figura di grande rilievo civile e religioso. Potrebbe rappresentare l’emblema della città, ma la sua memoria è oscurata in obbedienza al dogma di un'unità partigiana inesistente. Ogni anno lo commemorano come uno dei lecchesi fucilati a Fossoli, per omologarlo agli altri e negare la sua radicale diversità. Convinto assertore della collaborazione fra le classi secondo la dottrina sociale della Chiesa, Franco ha speso tutto se stesso nella costruzione di un sindacato totalmente autonomo dai partiti; principio per lui inderogabile, che lo ha condotto ad opporsi con fermezza agli scioperi politici del marzo 1944, provocati ad arte dai socialcomunisti per rafforzare la loro egemonia politica sulle masse esasperate dall'odio generato dalla violenta reazione tedesca. Per la sua opposizione agli scioperi, pagati con la deportazione e la morte di tanti innocenti, Franco - in quel tempo responsabile del sindacato clandestino di Lecco - era diventato un ostacolo, da “rimuovere”. Nessuno rammenta mai che, due mesi dopo quegli scioperi, vittima di una delazione (se ne può intuire la fonte), nonostante fosse stato avvertito dai suoi colleghi di lavoro, comunisti, Franco ha scelto di farsi arrestare, sapendo bene che l'avrebbero deportato in un Lager. Non si vuol vedere in questa scelta di Franco la testimonianza della sua rettitudine, del suo coraggio, della sua fede, e la condanna di coloro che avevano usato la vita altrui come mezzo per accrescere il loro potere. Non si vuol vedere che Franco si è rifiutato di fuggire oltre confine, come avrebbero voluto i suoi avversari e i suoi delatori, per partecipare, con tutto se stesso, al dolore di coloro ch’erano stati cinicamente sacrificati, e continuare così, in altro modo, la missione intrapresa; nella quale traspare, luminoso, il significato del suo nome di battaglia: Davide; il Re pastore, figura di Cristo che offre la vita per le pecore. A Fossoli, luogo del suo battesimo di sangue, Franco è morto testimone di quel nome; e di un’altra Resistenza».
A 70 anni dalla morte, questo personaggio continua a parlare alla sua sensibilità di scrittore. Come si inserisce la drammatica vicenda umana di Franco Minonzio nello spirito di Parole di neve?
«Ho pensato molto spesso a Franco in questi anni, e nel suo spirito di carità e compassione ho voluto far emergere una grande realtà di dolore occultata dalla città: l'olocausto sconfinato di vite abbandonate, recluse, spezzate. Per questa ragione, il romanzo prende le mosse in una stanza del ricovero per anziani dove, trasfigurando un incontro da me realmente vissuto, riporto il racconto di un ospite che mi rivela la vicenda dolorosa di Franco e la propria storia d'amore, stroncata nei giorni della Liberazione in città. Con la poetessa Antonia Pozzi, Franco Minonzio rappresenta la chiave di lettura del romanzo; che vuol essere un inno alla vita e un canto elevato in favore delle vittime della violenza, innanzitutto di quelle recise prima di venire alla luce. Anche per questo, il romanzo si conclude a Natale; tempo nel quale ogni vita spezzata, torna a vivere nella Luce del Redentore, e trionfa la verità di un'altra storia, una grande storia, che si eleva sopra la città perché ognuno la possa ritrovare. Alla quale Franco appartiene».
In quest'epoca di conformismo e opportunismo, cosa scandalizza di più in Minonzio: l'onestà morale di andare controcorrente, o la dignità di pagare per le proprie scelte?
«Franco è la pietra d’inciampo per la città, sempre più lontana dalle sue idealità, dai suoi valori. Basta guardare con occhi liberi com’è ridotta la memoria della Resistenza per capirlo. Com’è possibile non scandalizzarsi di fronte a una città, medaglia d'argento della Resistenza, annoverata tra quelle che più di altre gettano via la vita? Com’è possibile non scandalizzarsi di fronte all'egoismo mascherato da falsa solidarietà e all'immoralità dominante che ha gettato la gioventù nel vuoto sradicandola dal culto dei più alti ideali e dai valori che Franco ha testimoniato: l’amor di patria, la difesa della famiglia, della vita e della fede cristiana, la cura della tradizione e l’aspirazione verso un mondo migliore, ormai impensabile. Com’è possibile passare dal Corso Martiri, il cui suolo è ancora imbibito del sangue dei giovani caduti nell’ultima, inutile, battaglia per la Liberazione della città, e, pensando al sacrificio di Franco, non scandalizzarsi nel vedere che sopra quel sangue si affaccia un grande porno-sexyshop? Com’è possibile non vedere che la Resistenza muore soffocata dall'enfasi retorica, sotto fredde lapidi gettate su carni dolorose ancora vive che domandano invano integrità, onestà, dirittura morale, ed anche amore per la vita, pietà e riconciliazione, come avrebbe desiderato Franco?».
A Lecco l'attuale amministrazione comunale ha sentito la necessità di rimuovere la lapide collocata sul luogo della fucilazione di 16 militari della Repubblica sociale italiana, sostituendola con un testo che giustifica l'eccidio come punizione di un preteso atto proditorio compiuto dalle vittime. Diverse testimonianze, tra cui un'intervista dello scalatore Cassin, smentiscono la "verità" di partito. L'atteggiamento sulla vicenda di Minonzio conferma la difficoltà di un approccio onesto e non propagandistico a quei fatti così lontani?
«Le lapidi commemorative seminate per la città come tappe di un percorso della memoria partigiana mostrano in realtà la persistenza di un progetto scellerato e ben occultato. Basterebbe domandarsi ad esempio, quale significato accomuna la targa che ricorda gli scioperi del marzo 44, con quella, a pochi metri di distanza, che ricorda i militari della RSI fucilati allo stadio. Approfitto di questa intervista per chiederlo formalmente alle autorità cittadine e all'ANPI. Cosa racconteranno ai ragazzi delle scuole condotti sotto quelle lapidi, memoriali di un'aberrante mentalità sacrificale? A proposito della targa allo stadio: è ancora viva nella mia mente la cerimonia della consegna alla città di Lecco della medaglia d’argento al Valor Militare per i meriti conseguiti nella lotta di Liberazione, da parte di Sandro Pertini, nel marzo del 1976, proprio nel nostro stadio, dove 31 anni prima, il 28 aprile 1945, giunse l'ordine di decimazione del comando militare del CLN, in accordo coi membri di Lecco, che tradì e cancellò gli accordi di tregua concordati il giorno precedente, al termine della battaglia di Pescarenico, fra il comandante delle formazioni militari della RSI e il comandante delle formazioni partigiane Riccardo Cassin. Ricordo bene quella commemorazione, perché in quello stesso anno trionfava, quale espressione dei nuovi costumi “liberati”, il diario sessuo politico “Porci con le ali”; scritto dall'allora giovane Lidia Ravera, oggi assessore alla cultura e politiche giovanili della Regione Lazio, che proprio in questi giorni definisce i bimbi non nati, grumi di materia. E' questa l'eredità, per i giovani? Una cosa più di tutte mi sgomenta: vedere la città dei Promessi Sposi nascondere l'azione della Provvidenza nella propria storia come fosse una vergogna. Quanti segni di questa storia sono stati cancellati, a cominciare da Franco! Vorrei fare un solo esempio: del sacerdote don Luigi Brusa che ha lasciato una relazione appassionata sul giorno del massacro allo stadio, si ripete: “non ha lasciato memoria scritta”. Sempre in obbedienza al dogma di un'unità partigiana inesistente».
Nella foto-galleria: Franco Minonzio; Giuseppe Riva Arnaboldi; la copertina di Parole di Neve.
G. F.