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Lecco, via la targa della strage Brivio cede i riflettori a Venturini

Lecco - I nomi dei 16 ragazzi fucilati nel 1945, per una accusa poi smentita da Riccardo Cassin, saranno tolti dal muro dello stadio di Lecco dove venne consumata la strage. Ad alcuni membri della maggioranza consiliare premeva una passerella sotto i riflettori e il sindaco ha lasciato fare.

DISERZIONE PER ARROGANZA. A Lecco non vale più neppure il "parce sepulto": i morti non si risparmiano quando sono in gioco le poltrone e la stabilità di una maggioranza. Questa l'accusa dell'opposizione che, nella serata di lunedì, per protesta ha preso parte in ranghi ridotti ad una seduta del consiglio comunale di Lecco definita "inutile" e liquidata come una "esibizione di alcuni personaggi". Diserzione che ha indispettito il promotore della rimozione della targa, Ezio Venturini dell'Italia dei valori. "Rifiutare il confronto pubblico - ha detto - è una chiara offesa all’intera città di Lecco". L'opposizione, ha aggiunto, "con grande disinteresse per le  istituzioni  e per i cittadini lecchesi ha preferito con arroganza disertare questa assemblea".

METTERSI IN  MOSTRA. Oggetto del contendere la questione della targa affissa su un muro dello stadio, in memoria della fucilazione di 16 giovanissimi militari della Repubblica sociale italiana che si erano arresi ai partigiani. Semplice spettatore per tutta la seduta il sindaco Virginio Brivio che, inizialmente, pareva volersi limitare ad apporre una seconda targa accanto alla prima, dove raccontare una "verità ufficiale" su quel tragico e controverso episodio. "La verità, si sa - ha dichiarato in aula Cinzia Bettega, capogruppo della Lega Nord -, è patrimonio di chi vince. La targa - ha aggiunto -, non danneggia la libertà, la democrazia, la storia di Lecco e tanto meno è un problema per la sicurezza. Sono ben altri i problemi di Lecco”. Secondo Bettega, "la mozione Venturini non ha alcun senso: si tratta di un’azione mossa solo dal proprio tornaconto. Uno spettacolo indegno per mettersi in mostra".

LA TESTIMONIANZA DI CASSIN. La condanna a morte dei 16 giovanissimi ufficiali e sottufficiali fu decisa da un "tribunale del popolo" che accusò di tradimento i fascisti, perchè alcuni di loro avrebbero continuato a sparare anche dopo la bandiera bianca. Proprio la discussione di questi giorni, tuttavia, ha fatto emergere sulla stampa lecchese un dettaglio clamoroso e sempre sottaciuto: il grande scalatore Riccardo Cassin, il quale da partigianò prese parte in prima fila alla battaglia contro quei soldati, raccontò che gli spari dopo la resa provenivano da uno stabile dove erano asserragliati altri militari e da cui non si vedeva la bandiera bianca.

ERRORI DEL PASSATO. "Io stesso - dichiarò Cassin in una intervista a Patria Indipendente, mensile dell'Anpi, del dicembre 2002 - venni ferito il mattino del 27, mentre dalla massicciata della ferrovia sparavo con un bazooka sui repubblichini asserragliati in un caseggiato. Caddero altri amici, Italo Casella,  Angelo Negri, il liceale Alberto Picco, prima della resa degli assediati. Farfallino e altri tre saltarono su per la gioia: vennero fulminati sul posto da una raffica. In un'ala del fabbricato non si erano accorti che il loro comandante aveva esposto la bandiera bianca". In sostanza, Cassin spiega che dal quel caseggiato la bandiera bianca non si vedeva, e che chi sparò non sapeva della resa. Dunque, l'accusa di tradimento non regge, anche se i politici badano ad altro. Errori del passato, miserie del presente. 

Nella foto: la targa di via Pascoli coi nomi dei 16 fucilati.

22 maggio 2012